25.7.12

Sovvertire la macchina del debito infinito. Intervista a Maurizio Lazzarato @ Uninomade, 14 maggio 2012


Sovvertire la macchina del debito infinito

Intervista a MAURIZIO LAZZARATO – di ANTONIO ALIA, VINCENZO BOCCANFUSO e LORIS NARDA
Dopo aver pubblicato la prefazione all’edizione italiana ritorniamo su La fabbrica dell’uomo indebitato di Maurizio Lazzarato con un’intervista all’autore su alcuni nodi del suo importante pamphlet.

Nel tuo saggio, riprendendo la seconda dissertazione de La Genealogia della morale di Nietzsche e L’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, fornisci una ricostruzione del neoliberalismo secondo la quale attorno al debito si produce un dispositivo di potere che informa interamente l’infrastruttura biopolitica. Parafrasando Marx potremmo dire che il debito non è una cosa ma un rapporto sociale. Quale nesso intercorre tra la relazione creditore-debitore e la proprietà?
Il rapporto creditore-debitore è un rapporto organizzato attorno alla proprietà, è un rapporto tra chi ha disponibilità di denaro e chi non ce l’ha. La proprietà piuttosto che essere dei mezzi di produzione come diceva Marx, ruota attorno ai titoli di proprietà del capitale, quindi c’è un rapporto di potere che si è modificato rispetto alla tradizione marxiana, è deterrittorializzato per dirla con Deleuze e Guattari – è a un livello di astrazione superiore, ma è comunque organizzato attorno a una proprietà: tra chi ha accesso al denaro e chi non ce l’ha.
È un rapporto di potere che invece di partire dall’eguaglianza dello scambio, parte dall’ineguaglianza della relazione creditore-debitore, che è immediatamente sociale: l’economia del debito non fa distinzione tra salariati e non-salariati, tra occupato e disoccupato, tra lavoro materiale e immateriale, siamo tutti indebitati. Nello stesso tempo è una dimensione immediatamente mondiale, che agisce e comanda trasversalmente alle divisioni tra paesi ricchi e poveri, affermati o emergenti. Il credito/debito è stata l’arma fondamentale della strategia capitalistica dopo gli anni ’70, che ha spiazzato completamente il terreno della lotta di classe sul livello sociale e mondiale, col quale attualmente abbiamo ancora difficoltà a confrontarci.
Vorrei riprendere un argomento che non ho utilizzato nel libro perché viene da quel grande reazionario che è Carl Schmitt e che comprende il problema della proprietà . Il ragionamento mi è stato molto utile per pensare il potere della moneta, anche se Schmitt non parla di quest’ultima. Ogni ordinamento politico-economico è costruito e organizzato a partire da tre principi che sono tre diversi significati della parola “nomos”. Questi stessi tre principi sono alla base dell’economia del credito/debito. In primo luogo “nomos” significa “prendere/conquistare” e dunque appropriazione. Ogni nuova società (e ogni nuova sequenza del dominio capitalista, ad esempio il post-fordismo) comincia con la conquista, la rapina, con una sorta d’appropriazione/espropriazione originaria. Fino al capitalismo questa fase consisteva nell’appropriazione/espropriazione delle terra come presupposto di ogni economia e diritto ulteriore. Nel capitalismo contemporaneo questa fase è stata organizzata dalla finanza e dal credito che hanno espropriato, attraverso la moneta, la società nel suo insieme (non solo il lavoro, ma l’insieme delle relazioni sociali, dei saperi, della ricchezza, etc.). La finanza dunque come macchina di cattura predatrice. Il secondo significato di “nomos” è “spartire/dividere”. La divisione/distribuzione “fa le parti” (ma in modo radicalmente differente da Rancière). Attribuendo “il mio e il tuo” definisce la proprietà e il diritto. Nel capitalismo contemporaneo la proprietà è distribuita dalla moneta e dal credito/debito, ed è, principalmente, possesso o privazione di titoli del capitale.
Il terzo  significato di “nomos” è produrre, produzione. Ora, mi sembra  chiaro che anche nella sequenza apertasi alla fine degli anni 70, c’è una appropriazione/espropriazione, una distribuzione/divisione (proprietà) che precede logicamente, anche se non realmente, la produzione. Il concetto di produzione per non essere economicista deve includere questi tre principi. Ne L’anti-Edipo di Deleuze e Guattari, mi sembra, che la distribuzione delle funzioni, delle proprietà  e l’appropriazione sia organizzata dalla moneta come prerequisito della “produzione”.
La cosa interessante è che fino al capitalismo l’ordine degli eventi nel processo di costituzione di una società è quello descritto: appropriazione, divisione, produzione. L’economia classica e il liberalismo hanno voluto far credere che la “produzione”, caratterizzata dalla liberazione delle forze produttive, dai lacci e laccioli delle società dell’Ancien Régime, risolveva al suo interno il problema dell’appropriazione e della divisione. Ed è quello che i neo-liberali e i loro governi tecnici continuano ad affermare. Diventando il livello di vita sempre più alto (crescita), la “divisione diventa più facile e l’appropriazione non è solo immorale, ma anche irrazionale dal punto di vista economico e quindi insensata” (Schmitt). Schmitt cita Lenin e Marx, come autori che – in parte, dice – non hanno ceduto alle lusinghe della “produzione”. Il primo considera l’imperialismo e la colonizzazione come l’appropriazione/espropriazione necessari  per risolvere la “questione sociale”, mentre Marx considera l’accumulazione originaria e la sua feroce violenza come condizioni imprescindibili del Capitale. Per cambiare la produzione bisogna “espropriare gli espropriatori” e distribuire differentemente la “proprietà”. Ed è quello che questa crisi pone come problema e che i liberali e i socialdemocratici non vogliono vedere – o meglio vedono benissimo, ma non possono accettare! Una nuova crescita, un nuovo New Deal che non implicano una nuova appropriazione e una nuova proprietà (che esproprino gli espropriatori, siamo sempre li!)  non fanno altro che perpetuare le condizioni della crisi. La crescita è un rapporto politico prima che economico.  Crescita verde, crescita tout court, New New Deal, politiche dell’impiego, etc. non toccano assolutamente le poste in gioco politiche della crisi, cioè le caratteristiche dell’appropriazione e della divisione proprie del neo-liberalismo. Essendo queste le proposte liberali e “socialdemocratiche” di uscita dalla crisi, aspettiamoci un suo approfondimento che, in realtà, è già in corso. La crescita della Germania, per esempio, non modifica le cause della crisi, perché accresce le differenze e le ineguaglianze di classe, la precarietà dei lavoratori poveri ma anche dei salariati qualificati e concentra la ricchezza prodotta nelle mani di pochi. Ed è sempre l’economia del debito che “espropria”, “divide” e comanda la “produzione”. Fortunatamente, l’austerità che la Germania, attraverso il controllo dell’euro (forma contemporanea della moneta come capitale, della moneta come comando), vuole imporre agli europei non funziona. Sta già trasferendo l’“instabilità” dei mercati sul terreno politico, sconvolgendo il rapporto capitale/stato, capitale/sistema politico con esiti imprevedibili.

La definizione di economia del debito è anche un potenziale strumento di trasversalità delle lotte: l’indebitamento accomuna tutti (garantiti, non garantiti, lavoratori autonomi, disoccupati). Da un lato il comando capitalistico si è riorganizzato attorno alla finanza che cattura e decodifica i flussi produttivi, dall’altro si assiste a un progressivo incorporamento del capitale fisso nella forza-lavoro. Finanziarizzazione e cognitivizzazione sono l’ascissa e la coordinata del diagramma di potere contemporaneo nel quale si dispiegano le diverse figure del lavoro, le diverse forme di vita (il precario della conoscenza come l’allevatore francese, lo studente indebitato come il pastore sardo). Dentro questo paradigma postfordista il debito, l’interesse possono essere considerati la nuova forma della misura capitalistica?
Il credito/debito è diverse cose. È un dispositivo di cattura della ricchezza sociale, è un dispositivo di comando perché ridefinisce attraverso il credito l’allocazione degli investimenti e poi sì, è assolutamente una nuova forma di misura, di valutazione della misura. I meccanismi di valutazione che sono stati introdotti in tutti gli ambiti, anche nell’università, vengono dalla finanza. La finanza ha impostato questo processo dicendo che la fabbrica fordista era una situazione opaca in cui la misura era impossibile dal suo punto di vista, per cui, per poter investire per esempio in un’impresa, la finanza doveva avere tutti gli strumenti possibili di valutazione, una perfetta trasparenza che è stata data dalle norme contabili introdotte negli anni ’80 e ’90.
La misura è un altro dei principi che sempre Carl Schmitt introduce, affermando che il frutto dell’appropriazione, ciò che viene acquisito per mezzo di “conquista, scoperta, espropriazione” deve essere “misurato/pesato/diviso”. Quindi non è che non ci sia più misura, ma, come la finanza e il credito dimostrano, si tratta piuttosto di una misura “soggettiva”. Sicuramente è nuova misura ed è una misura arbitraria, che dipende solo dalle logiche di potere, e questa logica della valutazione/misura viene imposta a tutti gli aspetti della vita, introducendo la figura dell’esperto e della valutazione, nella scuola , nella polizia, nell’università, negli ospedali, finanche nel governo etc.. Bisognerebbe rovesciare questo assetto gerarchico, mettendo al centro la riappropriazione sociale e la condivisione dei saperi, rompere questa logica della misura, della valutazione, dell’esperto, mi sembra assolutamente fondamentale.

Tra le pagine più belle del libro ci sono quelle nelle quali ingaggi polemica contro «l’egualitarismo astorico» di Rancière e Badiou e la «riflessività UrModerna» di Beck (e Habermas). Il radicalismo non-marxista francese e il post-marxismo socialdemocratico tedesco, diversissimi tra loro, presentano però due analogie: espungono la lotta di classe dal dibattito della sinistra e propongono delle teorie della comunicazione che non tengono minimamente conto dei rapporti di potere. Insomma, quella che Guattari definiva la normalizzazione franco-tedesca sembra trovare anche articolazioni progressiste. Ma pure i movimenti a cavallo tra i due secoli sono forse stati affetti da un portato più che altro etico e da un certo idealismo comunicativo, è giunto il momento di tornare ad essere marxisti?
In Badiou e Rancière c’è il politico, ma non c’è il capitalismo. C’è il politico, ma precapitalista. Ci sono Platone e Aristotele, piuttosto che Marx. Non c’è la produzione , non c’è la fabbrica. La fabbrica intesa come prima attualizzazione di quel concatenamento uomini/macchine/segni che oggi ritroviamo non solo nella produzione, ma in ogni relazione sociale.  E che troviamo anche nello Stato/welfare, nelle sue amministrazioni. La cosa che mi ha sempre colpito è che in Badiou e Rancière non c’è nemmeno il concetto, nemmeno la parola “macchina”, come non c’è neanche la parola tecnica o scienza. La macchina (nel senso di macchina sociale e macchina tecnica) è sparita anche da altre teorie critiche, proprio ora che è dappertutto, proprio ora che accompagna ogni gesto, espressione, azione della nostra quotidianità. Penso che il concetto di linguaggio e di svolta linguistica tratti dalla filosofia analitica abbiano prodotto dei grossi guai, perché rinviano a un processo che mi sembra non materialista di soggettivazione. Nel capitalismo, la soggettivazione è sempre per e/o con la macchina tecnica e sociale. Il capitale è une relazione sociale, un rapporto di potere,  ma “assistito” da macchine sociali e macchine tecniche. È questa la specificità del capitalismo. Non è un semplice rapporto tra “uomini”, intersoggettivo come in Hannah Arendt (o Rancière), dove nell’azione non c’è un atomo di “materia”. Penso che bisognerebbe restare “fedeli” al “Frammento sulle macchine” con cui diverse generazioni si sono formate.  Per queste ragioni penso che la soggettivazione politica in Badiou e Rancière sia “idealista”. In Badiou la lotta di classe è pensata in astratto, la sua antologia sono le matematiche. Badiou e Rancière parlano dell’economia come se fosse l’altro della politica, invece il politico è completamente ridefinito dall’economia. Questo è il capitalismo e non altro:  “Il nostro destino è l’economia”, che è un rapporto di potere, un rapporto dove ci sono quelli che gestiscono il potere e quelli che lo subiscono e quelli che lo subiscono hanno la possibilità di ribellarsi, di rovesciare la situazione. La soggettivazione non avviene attorno alla democrazia, ma a partire da processi macchinici di sfruttamento e di dominazione che diventano democratici nelle lotta.
Beck bisogna prenderlo come uno dei modelli dell’impossibile “terza via”, della nuova socialdemocrazia. La società del rischio di Beck è completamente ridicola, mi pare, perché – per dirla in termini molto semplici – le differenze di classe attraversano anche il rischio, cosa inconcepibile per queste teorie dove la lotta di classe è espulsa come un vecchio arnese inutilizzabile. Gli unici che non rischiano sono i capitalisti. I rischi sono tutti per i vecchi e nuovi proletari. Se portassimo fino in fondo il discorso del rischio nell’economia del debito, gli investitori che hanno rischiato investendo sui debiti sovrani dovrebbero assumersene la responsabilità. Se gli Stati fanno fallimento perdono i loro soldi, punto e a capo. Invece è assolutamente il contrario: quelli che non sono responsabili pagheranno il rischio preso dal sistema economico. Il vero rischio è corso dalla popolazione. La stessa cosa vale per il rischio ecologico.
Beck pensa il politico attraverso una diffusione e una democratizzazione dei centri di decisione e di governo, la moltiplicazione delle mediazioni, delle “discussioni”. Quello che sta succedendo sotto i nostro occhi, è esattamente il contrario. Mi sembra ci sia in atto una centralizzazione della decisione e delle tecnologie di governance. Attraverso il governo tecnico, questa crisi impone una ricentralizzazione del comando, una ricentralizzazione dei dispositivi di governance statali e non statali, che mette da parte la “politica rappresentativa”, la democrazia dei cittadini, etc.. La cosa divertente è che è ben vero che il governo tecnico decide, ma la sua decisione efficace per ridurre i salari, i redditi, le spese sociali, è assolutamente inefficace per uscire dalla crisi. Stanno andando contro il muro, solo che tra loro e il muro ci siamo noi. La socialdemocrazia era stata costruita attorno a delle basi politiche precise che non paiono riproducibili oggi nei termini che propone Beck, non c’è più questa possibilità, la crisi attuale fa completamente saltare queste teorie della terza via elaborate negli anni ’80-’90.

Passando dalla teoria alla pratica, è del tutto evidente l’insufficienza dei sindacati (anche di quelli più combattivi) e l’incapacità della sinistra radicale (si pensi al ruolo dei Grünen nelle riforme del welfare tedesche) nel leggere il presente. I nuovi movimenti stanno iniziando a porre la questione del debito, ne sono un esempio la campagna contro il debito studentesco negli Stati Uniti e i timidi accenni in Italia contro Equitalia. Gli Indignados e Occupy occupando fisicamente le piazze (come fabbriche) alludono anche alla riappropriazione della metropoli (aspetto non da poco, considerando che la deregulation scarica sugli enti locali comparti sempre più consistenti del welfare). Il rompicapo dell’organizzazione, tuttavia, resta quanto mai aperto: se è certamente necessario capovolgere quel lavoro su di sé dell’uomo indebitato in termini ricompositivi costruendo ponti solidi tra soggetti differenti, non c’è il rischio di sottovalutare la condizione situata delle singolarità? 
Qui bisognerebbe partire dall’esaurimento della logica della rappresentazione (tanto politica che linguistica). Un lungo processo di crisi della rappresentazione sta volgendo al termine, tanto dal punto di vista del capitale che dal punto di vista dell’emancipazione. La crisi del debito è prima di tutto una crisi della governamentalità che ridefinisce tanti i governati  (uomo indebitato) che i governanti (governo tecnico). Getta luce anche sul concetto di governamentalità di Foucault, rompendo radicalmente con la sua genealogia. Noi assistiamo, dall’epoca della Thatcher a una privatizzazione della governamentalità che è l’altra faccia della privatizzazione della moneta. La tecnologia governamentale non è più una tecnologia delle Stato (anche se lo Stato ci gioca un ruolo centrale, ma come istituzione “privatizzata”) e l’economia non limita soltanto dall’interno la possibilità di governare, ma se l’assume in toto. Il governo tecnico è il compimento di questo processo di privatizzazione. Alla logica della rappresentanza si sostituisce la logica funzionale, operativa (diagrammatica direbbero Deleuze e Guattari) della moneta/credito, una logica cioè che non passa per la rappresentanza, né per le semiotiche significanti e rappresentative (linguaggio) e nemmeno per dei “soggetti” che decidono (à la Schmitt) . La logica della “produzione” e la logica della rappresentazione  (politica e linguistica) funzionano insieme nel capitalismo, ma a partire dalla supremazia della prima. E nella crisi la prima occupa tutto lo spazio politico.
Che cos’è un governo tecnico, un governo non rappresentativo? E’ un tentativo di trasposizione della logica del “just in time”, dall’impresa alla politica. Il governo deve assicurare che la popolazione risponda in tempo reale alle modificazioni delle variabili economiche. Lo spread sale, la borsa scende, i salari, i redditi, le spese sociali devono adattarsi in tempo reale ai segnali emessi dall’economia del debito. I neo-liberali avevano definito la soggettività dei governati tramite il concetto di “capitale umano” definizione fatta propria da Foucault. Che cos’è il “capitale umano”? È “capitale umano” colui che risponde sistematicamente alle modificazioni che saranno artificialmente introdotte nell’“ambiente”. Il capitale umano non è più l’“atomo di libertà” dell’economia classica, ma una variabile sistemica e subordinata i cui comportamenti devono adattarsi, essere compatibili, rispondere in “just in time” ai segni emessi dall’economia. Quello che il neo-liberalismo non è riuscito ad ottenere dal capitale umano (la capacità di rispondere in tempo reale alle esigenze dei “creditori”) vorrebbe estorcerlo all’uomo indebitato e in una prima fase sembra esserci riuscito, ma già si vedono i limiti e le impossibilità di questa “politica tecnica”. Al delirio dell’“autoregolazione” dei mercati, si aggiunge il delirio dell’autoregolazione della governamentalità. Una specie di governo automatico, cibernetico, direbbero Deleuze e Guattari. Non funzionerà. In mezzo a tutte questo agitarsi distruttivo e anti-produttivo del capitale, emerge una bella novità : la società contemporanea, in realtà, non è governabile dalla logica capitalistica, se non in termini autoritari (e di una nuova reazione), ed è in questa direzione che si muovono le tecniche di governo. La società eccede la misura dell’economia neo-liberale. Quella che si mostra come una forza del capitale, nasconde una grande debolezza.
Viviamo in uno stato di eccezione permanente che ormai, diventato regola, è anche inutile continuare a chiamare eccezione! Se il sovrano è colui che decide in queste condizioni, il sovrano è oggi il Capitale. Ciò implica evidentemente un cambiamento radicale del concetto di sovranità, in realtà la sua fine, (qui c’è il limite di Schmitt e di tutte le teorie che vi si rifanno, Agamben, etc.), perché il Capitale non è una “persona” (condizione schimittiana della decisione) e nemmeno un gruppo di persone, ma una “macchina” (o meglio un insieme di macchine) con le sue soggettivazioni o personificazioni, e, seconda osservazione, non ha un territorio a sé, né la possibilità di esprimere dei “valori caldi” capaci di costituire una comunità, una società, come direbbero gli ordo-liberali tedeschi. Il mercato, l’impresa e la concorrenza sono retti da principi dissolventi, piuttosto che unificanti. Distruggono sistematicamente ciò che tiene insieme una società. Il Capitale è sempre stato costretto ad utilizzare dei territori presi in prestito per colmare le sue lacune d’integrazione politica, di cui il più importante, lo Stato-Nazione, si è poi impegnato, a partire dagli anni ’70, a minare sistematicamente. Tutte le mediazioni rappresentative e istituzionali sono o saltate o fortemente indebolite. In Italia questo processo salta agli occhi : la “Padania” è la farsa del territorio e dei “valori caldi”, comunitari, che mancano al Capitale “terziario” rappresentato da Berlusconi e i neo-fascisti, l’altra faccia della farsa, che ha invece garantito un surrogato di valori statali e nazionali. Ancora una volta l’esibizione della forza del Capitale, è piuttosto segno della sua debolezza. A condizione che emerga una soggettività che lo combatta al suo stesso livello, rivelando, con la lotta, le sue debolezze.
La logica della rappresentanza è in crisi anche dal punto di vista dei movimenti. La democrazia politica e la democrazia sociale (sindacati, istituzioni sociali, etc.) fondate sulla rappresentanza sono state rifiutate da tutti i movimenti che si sono manifestati negli ultimi trent’anni. Qualcosa di nuovo sta emergendo, tra mille difficoltà e ambiguità. I movimenti stanno facendo delle sperimentazioni molto interessanti che, però, mi sembrano ancora non all’altezza dell’attacco portato dal capitale, anche se quella degli Indignados, di Occupy Wall Street e soprattutto quella di Oakland sono molto avanzate, perché, da un lato, si pongono su un livello immediatamente sociale, rompendo con le tradizioni corporative e settoriali dei sindacati e dall’altro rifuggono la “rappresentazione”.  In ogni modo l’accelerazione e l’approfondimento della crisi , costituiranno i migliori maestri per trovare nuove modalità d’organizzazione e nuove tematiche  di mobilitazione. Non penso che ci si possa soggettivare in quanto debitori, non so se sia possibile, è una categoria dell’assegnazione capitalistica, tu sei costretto a essere debitore. Tuttavia, il debito dà immediatamente un terreno sociale, una dimensione socializzata trasversale che prima non avevamo. Come direbbe Marx, il capitalismo si mostra in tutta la sua nudità, ma questo non vuol dire fare un discorso trionfalista o da filosofia della storia, anzi. Però le condizioni sono cambiate rispetto a quelle degli anni ’80 e ’90, c’è un terreno comune che va ri-singolarizzato rispetto all’eterogeneità delle diverse lotte sociali, delle diverse forme di vita, ripartendo dalle pratiche che sono quelle della riappropriazione della metropoli, delle lotte sul reddito, etc..
Le dinamiche espansive del capitalismo si sono chiuse. Negli anni ’80 potevano ancora prometterci l’arricchimento per tutti. Questa promessa di ricchezza futura il capitalismo non può più mantenerla oggi. Quello che ci promettono ora sono “lacrime e sangue” per i prossimi 10-15 anni e la feroce difesa dei loro “privilegi”. Qui , molti dei vecchi obiettivi della lotta di classe, ridiventano attuali.


PicQuadro/Coppo di Montevarco: L'inferno